Restiamo distanti per non riunirci

13.01.2022

     Scrivere un libro non è semplice. E' necessario ragionare sul tema da affrontare, sui contenuti da esporre, sullo sviluppo dei capitoli e riflessioni soggettive da inserire oppure evitare ed infine sulle conclusioni che possono mettere d'accordo alcuni lettori o lasciare nel dubbio altri. Sono partita da questi presupposti quando ho iniziato a scrivere il saggio "Distances. Indagini interspaziali" analizzando un periodo di fragilità individuale e collettiva ed è stato, probabilmente, uno dei compiti più difficili degli ultimi periodi. In questo viaggio dentro e fuori dall'IO, un soggetto oppure oggetto in relazione con il mondo esteriore e quello interiore in un continuo alternarsi tra attualità e passato, proiezioni future e inquietudini latenti che sono i risultati delle ristrettezze, compromessi, condizionamenti e situazioni che si sono succedute nell'arco di questi due anni, l'essere umano ha iniziato a percepire un senso di disumanizazzione nei confronti di se stesso e del mondo. La paura di essere un mezzo di contagio ha creato quel vuoto interiore che si era già concretizzato a partire dal passaggio dall'essere all'avere e condividere con il mondo il proprio status sociale.

     In una logica capitalista e individualista, l'uomo ha posto se stesso al centro dell'attenzione di un macro (fake) pubblico in grado di sostenerlo nelle scelte personali e professionali. Contano i numeri, gli zeri, i like, le visualizzazioni, le reti e i profitti che si possono creare in uno spazio virtuale all'interno del quale sembriamo tutti uniti, ma siamo molto distanti. E' questa l'idea che cavalca il cervello umano, ovvero che la tecnologia è nostra amica e ci aiuta a divenire qualcuno, ma quali sono le conseguenze di una vita spesa con la testa china sul cellulare piuttosto che all'aria aperta a mirare ciò che ci cirdonda? Durante la fase di lockdown forzato e di quarantena alternata a momenti di libertà ci siamo resi conti dell'importanza dell'altro, della presenza e calore umano, dello stare in natura e vivere in un ambiente sano, ma allo stesso tempo l'altro è divenuto il nemico, colui che può attaccarci e infettarci, toglierci la vita e non lasciarci più spazio di azione.

    Non siamo più umani, non quanto prima, non per colpa nostra, non per scelte personali, ma collettive. Siamo distanti, fragili dietro quelle maschere che nascondono il volto e ci fanno sembrare omologati, uguali, con gli stessi diritti e doveri, ma le nostre vite si reggono sul filo del rasoio, viviamo di speranze che sembrano davvero le ultime e senza possibilità di chiedere un bonus, un bis. Cerchiamo di non mollare altrimenti crolla tutto e il sistema si sgretola portandosi con sè tutto ciò che trova e magari, per errore, finiamo anche noi dentro il ciclone perché siamo apparentemente felici, ma internamente in frantumi e ce ne accorgeremo quando la nostra vita sarà solo uno scorrere il tempo a scrollare le storie degli altri, quelli felici che vivono nell'appartamento accanto al nostro e hanno un'esistenza invidiabile.

Cerchiamo di stare ancora in piedi e di credere che queste distanze finiranno e torneremo a darci la mano (anche se l'usanza di darsi la mano risale al periodo medievale per accertarsi che la persona incontrata non tenesse armi bianche nascoste nella manica e nella religione induista il famoso saluto con le mani congiunte al petto sta a significare da una parte che mi inchino dinanzi alla divinità che è in te, ma allo stesso tempo evito di toccarti poiché potresti infettarmi) e a sorridere mostrando il volto e le nostre espressioni. Restiamo distanti rispettando lo spazio dell'altro per poi, forse, riunirci quanto prima.

Imelda Zeqiri